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Scheda di Eudoxa (DarkGreen)
22-02-2022, 09:14 PM (Questo messaggio è stato modificato l'ultima volta il: 25-02-2022 11:04 PM da DarkGreen.)
Messaggio: #1
Scheda di Eudoxa (DarkGreen)
Nome: Eudoxa

Anni: 17

Altezza: 186 cm + 10 cm ca. di capelli

Peso: 80 kg

Arto dominante: destro

Tipologia: attacco

Uniforme: Consueta armatura fornita dall’Organizzazione, prossima a subire possibili modifiche

Simbolo:
 [Immagine: EUd.png]


Avatar:
 [Immagine: Eu.png]



Profilo fisico: Il fisico di Eudoxa può quasi definirsi come il manifesto lampante delle sue qualità performanti.

Dai preponderanti tratti somatici negroidi*, è alta e slanciata, con un rapporto piuttosto equilibrato tra muscolatura, ossatura e massa grassa, ben delineate ma non pesanti.

Seno, spalle, glutei, cosce e fianchi sviluppati e proporzionati al resto del corpo.

La grande massa dei capelli dorati salta subito all'occhio: ricca, crespa, voluminosa, ricadente in una frangia di finissimi e compatti riccioli, che copre tutta la fronte; due file abbondanti di ciuffi ribelli si poggiano anche sulle tempie, ai lati del volto, fino a nascondere le orecchie. La lunghezza della capigliatura consiste nella loro significativa estensione tridimensionale –specie in altezza e larghezza–, ma nella parte inferiore superano di poco l'inizio del collo.

Le sopracciglia sono lievemente folte e alte, le palpebre superiori calanti, così gli occhi, larghi e distanziati. Il naso è carnoso, largo, non lungo. Le labbra sono pronunciate e carnose: quello inferiore presenta una cucitura nel mezzo.

Il mento presenta una lieve fossetta.

Il viso ha nel complesso un ovale un po' allungato, la scatola cranica non è molto accentuata, la mandibola è armoniosamente marcata.

La pelle presenta qualche leggera macchia congenita, prima impossibile da notare per via della bruna carnagione.

L'andatura è bilanciata, sinuosa ma calibrata ad ogni passo, lo sguardo rilassato, anche nei momenti di concitazione (o almeno in quelli che potrebbe avvertire o far apparire tali).
L’aura che emana è spesso fonte di soggezione ed inquietudine.
Difficile non beccarla sorridente.


Profilo psicologico: Flemmatica, elegante e maestosa, misurata nei gesti e nelle modulazioni della voce, a seconda delle circostanze. Inesorabilmente fallace.

La sua eloquenza va a ritagliarsi sul livello di comprensione dell’altro e, in qualunque modo dica qualunque cosa, seduce. Che sia o meno voluta, la sua abilità di attrarre è un fatto certo, apparentemente indistruttibile è poi l’arte manipolatoria che intesse in ogni minima azione. Con sorridente o crucciato –quasi sempre pacato– pathos, convince del contrario, induce ad agire, immobilizza, dirotta, distrugge.

Lungi dall’essere empatica, Eudoxa è una ragazza dal più ferreo ed insormontabile cinismo. Non conosce emozione che non sia il tiepido brivido del manovrare il prossimo, del disporre del suo pensiero e della sua vita.

I sentimenti sono maschere teatrali, da indossare nelle varie occasioni della pièce.
Priva di scrupoli, distaccata, dal sangue gelido e con una vena di sadismo, la sua imperscrutabile volontà sorpassa i limiti imposti e la comune morale, spesso senza lasciare tracce, o rimuovendo con nonchalance le eventuali rimaste, proprio sotto al naso di chi, senza nemmeno accorgersene, vi assiste.
La pratica del dispetto non le è neanche tanto estranea.
Può talvolta succedere che agisca di impulso per qualche impreciso moto dell’animo, sconosciuto addirittura a se stessa ed affatto prevedibile.

La grandezza della sua immagine si blocca alle soglie dell’esteriorità: al di là di esse governa l’arcano enigma di una personalità del tutto sfuggente.
Il lato positivo sta nelle sue naturali doti da leader che, qualora se ne intuisca il modo per incanalarle ‘rettamente’, potrebbero costituire un successo di squadra.

Non si riesce a discernere quel che per lei rappresenta la scena in cui esibirsi dalla sua intima natura, sepolta dall'assurda simbiosi tra perversione, diffidenza, vuoto e mistero. Può darsi che essa non esista di per sé.


Storia personale:

Eudoxa è sempre stata una bugiarda.

Della sua infanzia mai discorre e, se lo fa, cambia di continuo storia.
Prima era una ricca cadetta rifiutata dal bianco padre (inverosimile, ma lo faceva credere con efficacia); poi era l’erede al potere di un clan tribale dilaniato da lotte intestine e cannibaliche; poi ancora la figlia dell’impossibile storia di passione tra due yoma, di cui uno invischiato nell’occulta corruzione del clero a Rabona. Un giorno rivelò addirittura di essere nata già claymore. Qualcuno la prese in parola e sparse la voce in giro.
Non importa quel che dicesse: ogni mendacità era oro colato, piacevole all’orecchio, incantevole, incatenante ad una realtà che non c’era ma che eppure dava l’impressione di dover esistere per forza.

Tutto quel che di certo –e vero– si sa di Eudoxa, è che fosse un’orfana negra, venuta chissà da dove, cresciuta tra il randagismo umano ed i sassi della città sacra di Rabona.
La sua eleganza faceva a pugni con un tale vissuto, lacerato dalla cupa e cruda piaga del non avere niente, dell’essere niente.

Era alta, la più alta tra tutti i bastardelli suoi coetanei o più anziani di lei, che trainava in qualità di capo branco. Dimostrò sempre più anni di quanti in realtà ne avesse, come se anche il suo corpo costituisse una falsariga.
Di certo, la sua apparenza fisica spiccava molto.
Si dice che, incastonati nella sua carnagione d’ebano ed incorniciati da una criniera castana, due occhi di un blu profondissimo brillassero vivacemente, iniettandosi di aurea luce quando il trasporto dell’esibizionismo prendeva a possedere la sua anima.

Eppure, era un esibizionismo collaterale, magnetico: aveva a che vedere con l’occulto, la magia nera, la lettura di ogni segmento di derma, l’ammaliamento subdolo di qualsiasi tipo umano. Quest’ultimo sicuramente era però un dono di natura.

Apprese le altre oscure arti –stando alle voci che circolano tra i viottoli più nascosti e pietrosi della periferia rabonese– da una sorella dell’Ordine sacro, la quale, nelle sue presunte missioni di pace e carità tra la reietta gente della capitale, altro non faceva che diventare lei stessa una reietta, la peggio dei peggio, la fattucchiera più rinomata, dall’avida sete di mistero e danaro.
Questa sua doppiezza attrasse sin da subito la giovane Eudoxa, che si attaccò alla veste della suora come una sanguisuga. Vedeva in lei la perfetta alleata per i suoi misfatti, uno specchio opaco, nel quale eppure risplendevano torbidi strascichi del proprio ego riflesso.
Le iridi di Mariem –questo era il nome della sorella– giacevano nel sanguigno incavo di palpebre concave e cadenti, ed erano di un grigio topo, quasi delle nebbie fitte in cui neanche il sole riusciva a penetrare. A modo suo, era una strega.

Strega e stregoneria. Due parole, due identificativi assolutamente banditi dalle teocratiche leggi di Rabona. Era come una dimensione parallela, condannata dalla morale ricorrente ma stigmatizzata nel petto fragile della gente e nel sottofondo di una preziosa ipocrisia.
Tutto era nascosto, taciuto, pullulante nell’ombra.

Dopo aver, tra i sei e i nove anni, subito la musica sorda di ceffoni, legnate ed energici spintoni –tutti volti a tenere l’incomoda e tenace bambina alla larga da sé– Eudoxa riuscì infine ad entrare nelle grazie di Mariem, che si rese pian piano conto di qual grande talento avesse nel procacciarsi la gola della gente.

«Signora, che triste sguardo che ha e che begli occhi lo esprimono! Venga, venga, noi sappiamo la sua penitenza!»  «O buon uomo, cos’ha sul dorso della mano? Sembra niente a lei, ma porta assai male, eccome se lo fa! Ecco perché ha quel pensiero amaro nel cuore. Ma io so cosa può aiutarla e so che vuole uscire da tutto questo. Venga con me.»  «Ragazza cara, amica mia, quell’anello che porti al dito… che mi si cucia la bocca se parlo e dico dove l’ho visto!»  «Nonno! Oh, eccoti dov’eri! Raccontami di te, raccontami di te senza pensare ciò che resta, perché vivere e aspettare, come la calma dopo la tempesta, raccontami di te di cosa vuoi, di cosa non ti basta … le cose che ti porti dentro, che è tanto che aspetto di sentirti dire, le cose successe per caso che ti fanno pensare, ti fanno pensare, prendimi la mano, prendimi la mano, prendimi per mano e ricominciamo dai ricominciamo, ricominciamo…**»

Così, divenne sua fedele assistente, facendo del fetente tugurio, ove Mariem esercitava in segreto il suo mestiere, la propria casa. Non aveva mai avuto una casa.
Quella era la sede dell’Associazione di assistenza agli umili e ai bisognosi, di facciata ovviamente. E lì la ragazzina a suo adagio agio soggiornava.

Mai una carezza, né una parola di tenerezza, né un pensiero leggero e generoso da parte della strega. Ma di questo a lei non importava un bel niente. Forse perché non sapeva neanche cosa fosse, non si sa. Tutto quel poco necessario a farle battere il cuore di già lo possedeva in mente sua: l’aver fatto delle sue capacità persuasive il palcoscenico della sua vita, l’essere custode dei misterici rituali di Mariem, nonché erede della sua stregoneria.
Gli antichi compagni di vico la soprannominarono perciò, in un composito ed inestricabile miscuglio tra disprezzo e stima, “la Strega”, o anche più specificamente "la strega negra".

Incensi, decine e decine di fatiscenti specchi appesi per tutte le pareti, carte riccamente decorate e dai bordi assai consunti, preghiere contraddittorie, pentole dal fondo quasi carbonizzato e dall’olezzo rancido, fumi di erbe e spezie di terre lontane, i volti traslucidi delle graziate vittime, il respiro pesante di Mariem e le sue parole blasfeme e stupende, esalate nei vapori della camera, nelle muffe del soffitto.
Nel frattempo, le fu anche insegnato a leggere, a scrivere e far di calcolo, poiché serviva.

Ma la felicità porta in seno i germi della noia. Lo capisci, quando ti rendi conto che stai crescendo e sei un’imbrogliona che convive con un’altra imbrogliona.

«Un giorno ti porto a mare.» oppure «Un giorno ti butto a mare.»?
Sta di fatto che Mariem le promise una delle due cose. Le restò impressa la scena in cui lo proferì: stava la signoraccia leccandosi l’indice e il pollice, mentre allacciava teste d’aglio.

Eudoxa tuttavia non voleva solo il mare, oramai voleva il mondo, il suo mondo.
Bisognava togliere di mezzo Mariem per questo.

Si racconta che la povera e misericordiosa sorella cadde da un precipizio al confine della città, mentre raccoglieva dei particolari boccioli che solo in quel punto hanno vita.
Voleva farne una corona ex-voto, dedicata alle gemelle patrone della città, dicevano allora le consorelle sorbendosi le lacrime.

«L’ho tolta da un impiccio.» chiacchierava tra sé e sé Eudoxa, che dall’estrema periferia di Rabona si avviava verso ‘casa’ sul fare del crepuscolo, le mani avvolte nelle tasche del manto nero «Le sue simili stavano già dubitando di lei da tempo e a breve l’avrebbero scoperta, troppa la fama che grazie a me aveva accumulato. Perché infangare la loro pura coscienza? L’ingenuità è un elisir di lunga vita.»

Fu quello l’incipit di una lunga serie di misfatti.

La camera degli incantesimi divenne di sua proprietà e lo stoccaggio delle cavie raggiunse delle vette vertiginose. Nessuno si spiega ancora oggi il motivo preciso delle lunghe file, che intasavano ogni giorno quel cunicolo che conduceva alla casa magica.

Alcuni randagi confessarono che videro persone entrare e non più uscire.
Dei frequentatori raccontano che all’interno della stanza, proprio dirimpetto all’ingresso, stesse un enorme ritratto realizzato a mosaico, dall’impressionante verosimiglianza, raffigurante Mariem sotto santissime e rivelate spoglie. Eudoxa stessa –dicono ancora– si dichiarò all’epoca medium eccellente per mettersi in comunicazione con l’anima onnisciente della defunta sorella. In questo modo vedeva il futuro, chiariva il passato, manovrava il presente.
Da qui forse lo sciame alla sua porta.

Ma qualcosa iniziò lentamente ad andare storto.

Fu minacciata da un cliente ravveduto e pentito, che con qualche strano barlume di coscienza si rese conto del marciume di fondo. Le sputò in faccia che avrebbe fatto delazione dell’ipotetico omicidio di Mariem.
Non ne ebbe il tempo, non gliene rimase, così come non rimase niente di lui, se non vapore.

«La veneranda Mariem ha disposto di condurlo con sé nel suo universo di sapienza suprema. Sapeva tante, troppe cose. Anche lui ci aiuterà a trovare la verità, d’ora in poi.»

Non fu l’unica occasione per recare nuova compagnia alla sorella in domicilio nel suo immaginifico iperuranio.

Un bel mattino di fine maggio, delle grida si alzarono nei cieli di Rabona. Il sangue di tre famiglie si spargeva copioso oltre gli stipiti sfasciati delle porte di casa, scaldando sotto il sole le vie pietrose.

Gli occhi di tutti quanti, anche del tutto inconsciamente, si dirottarono verso il volto scuro di Eudoxa, la quale con entusiasmato sbigottimento, tra la folla devastata, osservava i riverberi delle pozze vermiglie.

Quella scena rimase nella mente di tutti: lei che come una gazzella scappava lontano e chi cercava di acchiapparla, di scalfirla con qualche pietra, imprecando le peggiori bestemmie.

Per giorni e giorni giacque nei pressi del celebre dirupo, ove i petali dei fiori solleticavano le sue guance, mentre con l’orecchio udiva i tremori della terra, gli eventuali passi falsi dei persecutori.
Lei non aveva fatto niente, questa volta almeno.
Perché era fuggita? Avrebbe potuto convincere il popolo della sua versione. Poteva farlo.
Ma quasi le veniva difficile dichiarare qualcosa di autentico, tanto era (ed è tutt’oggi) avvezza alla sistematica menzogna.

Una singolare idea le balzò in testa: vestire i panni del carnefice anche qualora non lo fosse davvero. Meglio giocare fino in fondo che dichiararsi innocenti. Questo è il teatro della vita.

Nottetempo, inizio giugno, tornò nel cuore della città. E accadde quel che doveva accadere.
Uno scoppio di urla infestò l’aria e le genti si riversarono sulle strade. Le guardie accorsero  e lo spettacolo fu unico: un uomo, tenendosi le budella, fece cenno di saluto (sembrava un saluto), poi si ripiegò su se stesso e dipinse l’uscio del retorico rosso.

Dentro la sua dimora, qualche lucerna rischiarava la pelle traslucida e coriacea di un umanoide, nell’atto di abbuffarsi di qualcosa. O di qualcuno.

Le folle furono evacuate entro le mura interne di Rabona. Bisognava isolare e abbattere il mostro.

Il mostro, infatti, si rivelò infine non essere Eudoxa. Teatrino fallito.
Eudoxa era però la strega. Lei aveva portato male, aveva maledetto la città.
Ergo, la colpa era comunque sua.
Fu dunque gettata oltre l’area di raccolta e difesa, nelle grinfie delle guardie inflessibili, del mostro e di altre maledettissime streghe, dissero.
Altre streghe.
«Lontana da noi! Con quelle megere ti troverai bene, sempre che tu non venga ammazzata prima, lo voglia Dio!» esclamò unanime la vox populi.

Le dinamiche che la portarono a diventare una claymore sono avvolte nella confusione.
Eudoxa disse che fu una sua lucida scelta, poi ancora che la costrinsero con mali modi, dopo ancora e ancora che riuscì ad amicarsi lo yoma e quindi destò sia l’antipatia che l’interesse degli uomini vestiti di nero, i quali cercarono di acquistarsela in ogni modo.
Non si capisce, né probabilmente si capirà mai, ma successe.
Doveva aver avuto allora dodici anni.

Fu così che venne ufficialmente consacrata strega e cambiò livrea. Il suo corpo fu imbottito di carni fetenti, ma il concetto di ciò, al di là del dolore materiale, non la impressionò: in fondo, gli yoma non le avevano fatto niente. Avevano qualcosa di ingenuo, di primordiale, di immediato. Lo spirito esatto di una perfetta cavia sacrificale, dapprima mendacemente umana, poi bestia. L’ideale.
Forse le somigliavano, nell’informe profondo.
Comunque sia, si trasformò e non fu più quella di prima, all’apparenza.

C’è qualche compagna che narra un curioso fatto: quando Eudoxa si ritrovò di nuovo davanti ad uno specchio –era da tempo che non le capitava–, deflagrò in una potente risata, inquietante, folle, ma a ridosso del pianto, pronunciando qualcosa di bislacco come “Oh, Mariem nei miei occhi!”.

Fu il battesimo di fuoco della Strega.



«Ah sì, soltanto un’ultima cosa. La nonna stregona mi chiamò Eudoxa. Prima non avevo nome.»

Forse è questa una delle poche verità uscite dalla sua bocca. Forse.



- - -
*nota: l’aggettivo ‘negroide’ è da intendersi quale mera e generale caratterizzazione etnica, senza alcuna connotazione razzista.
**altra nota: si tratta della citazione palese di una canzone di Silvia Olari, mi sembrava giusto segnalarlo. Concedetemela.


But a desperate fear flows through my blood


That our dead love's buried beneath the mud.
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Scheda di Eudoxa (DarkGreen) - DarkGreen - 22-02-2022 09:14 PM

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